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martedì, dicembre 18, 2007

Macchina di Turing

Una macchina di Turing è un calcolatore idealizzato, si suppone cioè che non sia sottoposto ai limiti fisici dei normali calcolatori (di memoria, di spazio, di velocità, ecc).
Tale macchina è costituita da un nastro indefinitamente lungo e da una testina in grado di effettuare alcune operazioni sul nastro. In particolare la testina può leggere il simbolo contenuto nella attuale posizione del nastro, cancellarlo o scrivere al suo posto un altro simbolo, spostarsi a destra o a sinistra.
Volendo formalizzare questa descrizione sommaria di una macchina di Turing è possibile definire un'espressione in questo modo:
dato un alfabeto di simboli "s1,s2,s3,...,sn q1,q2,q3,...,qm D,S" un espressione è una successione finita di simboli presi da questa lista.
Una quintupla è un espressione della forma:
qi sj qk sl M

Una quintupla si interpreta in questo modo: Se la configurazione interna è "qi" e il simbolo osservato è "sj" allora passa nello stato "qk" e scrivi al suo posto "sl"; infine spostati di una casella a destra o sinistra a seconda che M valga D oppure S.

Definizione di macchina di Turing: una macchina di turing è un insieme finito (non vuoto) di quintuple che non coincidano in nessuno dei loro primi due simboli.

Tale definizione pone delle condizioni di finitezza e determinatezza alla macchina di Turing relativamente all'alfabeto di simboli da utilizzare e al fatto che la macchina potrà eseguire al più un'operazione alla volta.
Alcune macchine di Turing vengono dette "universali" perché sono in grado di simulare il comportamento di qualsiasi macchina di Turing.

Quello che la macchina di Turing esegue è un procedimento algoritmico che nei normali calcolatori viene specificato in qualche linguaggio di programmazione.
Turing diede anche una definizione di quelle che sono le funzioni calcolabili da una macchina di Turing: "qualsiasi funzione che possa essere specificata mediante procedimento algoritmico è calcolabile da una macchina di Turing". Tale tesi è stata elaborata indipendentemente da Church e Turing (essa infatti è anche nota come tesi di Church-Turing). Il lavoro che portò a tale tesi fu principalmente dovuto alla necessità di generalizzare i teoremi di incompletezza scoperti da Godel. Nella versione direttamente collegata al lavoro di Turing il primo teorema di incompletezza si può così enunciare: "dato un procedimento algoritmico che consente di operare in maniera corretta nell'ambito dell'aritmetica elementare, quindi consente di generare tutti gli enunciati veri, esso risulta essere incompleto, ovvero non consente al contempo di non generare alcun enunciato falso. Il problema di generare tutti e soli gli enunciati veri non è risolvibile nemmeno in linea di principio.

lunedì, dicembre 17, 2007

Scienze cognitive, sintesi storica

Sin dall'antichità il problema relativo alla mente e alle nostre capacità cognitive ha affascinato filosofi e grandi pensatori.
Platone pensava che le idee più importanti preesistessero nella mente e che solo attraverso lo studio e l'attività razionale si potesse risalire alle stesse. Altri filosofi hanno sostenuto questa posizione intellettuale nota come razionalismo.
Al contrario di Platone, Aristotele sosteneva che le cose più importanti si apprendono grazie all'esperienza sensibile: tale posizione viene denominata empirismo.
In seguito fu Kant a tentare una conciliazione delle due posizioni sostenendo la preesistenza di idee innate ma che possono essere "attivate" solo grazie all'esperienza sensibile.
L'interesse per lo studio della mente ha poi subito una brusca frenata e solo intorno al 1800 lo psicologo Wundt con i suoi allievi tornò a studiare sistematicamente le operazioni mentali utilizzando il metodo sperimentale. Wuntd sosteneva che molti dei nostri processi cognitivi avvengono grazie all'uso di immagini mentali molte delle quali sono accessibili attraverso l'introspezione.
Con l'avvento del behaviourismo lo studio dei processi cognitivi è stato bandito, la mente è tornata ad essere una scatola nera e l'unico interesse fu l'analisi degli stimoli e delle risposte comportamentali.
Nel 1956 George Miller compie numerosi studi sulle capacità della nostra memoria a breve termine sostenendo che la nostra capacità di memorizzazione è limitata a circa 7 item (per questo ci risulta difficile memorizzare numeri di telefono lunghi) e che per superare questo limite l'uomo
utilizza procedure di raggruppamento e ricodifica delle informazioni.
Quelli sono anni di fermento e innovazione tecnologica soprattutto per la computer science che vede la nascita dei primi calcolatori con programma memorizzato.
Il calcolatore "general purpose" è un elemento chiave per le scienze cognitive e l'intelligenza artificiale. Un calcolatore "general purpose" si distingue dalle normali calcolatrici perché è in grado di assolvere a diversi compiti lavorando su strutture dati che il programmatore fa
corrispondere alle entità più varie. I procedimenti che permettono l'elaborazione di tali strutture sono gli algoritmi. Una delle istruzioni più usate in un procedimento algoritmico è quella di "salto condizionato" ovvero il computer, trovandosi di fronte a una o più opzioni, sceglie una di esse sulla base di alcuni criteri. La capacità di scegliere mette i computer in condizione di dimostrare "intelligenza" o quantomeno di simulare una delle capacità peculiari umane: quella di scegliere.
E' grazie allo stimolo proveniente dagli studi della computer science che gli studiosi di scienze cognitive fondarono le loro ricerche: "la mente sta al cervello come il software sta all'hardware". Così si può sintetizzare l'analogia di base di questo ambito di studio: si cerca di modellizzare il pensiero umano sfruttando l'analogia fornita dal computer. Come il programma è dato dall'unione di procedimenti algoritmici che elaborano strutture dati, così il nostro pensiero è dato da processi mentali che elaborano strutture rappresentazionali.
Questa concezione è stata definita "Computational Representational Understanding of Mind (CRUM)".
Nel 1956 in un seminario tenutosi al Dartmouth college di Hannover nel New Hampshire vennero gettate le basi programmatiche delle scienze cognitive e della moderna intelligenza artificiale. Si legge dallo storico documento elaborato in quell'occasione: "in linea di principio è possibile descrivere ogni aspetto dell'apprendimento e dell'intelligenza umana con una precisione tale da renderlo simulabile attraverso un calcolatore digitale."
Nei giorni di Dartmouth era pronto a girare sul calcolatore il "Logic Theorist", un programma sviluppato da Newell e Simon in grado di dimostrare teoremi di logica formale riproducendo i modi con cui gli esseri umani svolgono questo compito.
Di solito la nascita ufficiale della scienza cognitiva si fa risalire al 1960, anno di pubblicazione del primo numero della rivista "Cognitive Science".

lunedì, marzo 06, 2006

Le regole costitutive generano analiticità e apriorità?

Rendendole razionalmente inattaccabili, la tesi dell'arbitrarietà tende ad accordare alle regole costitutive, e agli enunciati che se ne possono derivare, un ruolo di principi analiticamente validi e di conoscenze a priori. Quando si parla di analiticità si intende che la conoscenza del significato è immediatamente o mediatamente sufficiente per ottenere giustificazioni incontrovertibili.
L'apriorità dipende dal fatto che la giustificazione non ricorre affatto all'esperienza e tantomeno può essere messa in discussione dall'esperienza.
Paul Boghossian cerca di difendere analiticità e apriorità con la tesi della “definizione implicita”: “E' stipulando arbitrariamente che determinati enunciati siano veri o che certe inferenze siano valide che conferiamo significato alle espressioni coinvolte”.
Tuttavia non si può considerare analitico ciò che deriva da regole stipulate se non si esclude che vi rientrino enunciati empirici “che possono essere falsificati dall'osservazione”. Chi sposa la tesi di analiticità può replicare a questa obiezione con restrizioni sulle regole costitutive, sostenendo che solo regole con determinate caratteristiche generano validità analitica. Ma abbandonando la piena arbitrarietà delle regole, tale tesi va incontro a nuove obiezioni. Se il suo fautore esige sia provata la coerenza delle regole e richiede una prova deduttiva inizia un regresso all'infinito che, per il secondo teorema di incompletezza di Godel, è fatale. Si potrebbe suggerire che siano costitutive e generino analiticità le regole dotate di un'opportuna caratteristica G che assicuri coerenza e altre proprietà, senza che sia necessaria alcuna prova.
Allora vi sono due casi: o non è noto ai parlanti se le regole date abbiano la caratteristica G, oppure ciò è noto ai parlanti. Nel primo caso il significato non è costituito da regole in quanto prassi condivise perché sul piano delle prassi condivise non c'è differenza fra regole che costituiscono il significato e regole che non lo costituiscono. La differenza G, infatti, non essendo nota ai parlanti, è ininfluente. Per la stessa ragione non è sostenibile parlare di apriori visto che i parlanti non sanno quali regole sia affidabili generatrici di verità.
Nel secondo caso, il fautore dell'analiticità sminuisce il fatto che i paradossi spesso derivano proprio da regole argomentative in apparenza evidenti. In questo caso si inserisce una proposta di Dummett e Prawitz. L'idea è considerare costitutive del significato solo regole di introduzione dalla forma immediatamente riconoscibile ovvero regole che governano passi inferenziali in cui premesse e ipotesi scaricate sono di complessità non maggiore della conclusione. Regole prive di tale caratteristica non sono costitutive e sono analiticamente valide solo se è possibile giustificarle mostrando che sono in armonia con le regole costitutive (teoria verificazionista).
Probabilmente la tesi di analiticità va scartata perché le regole costitutive, pur appartenendo alla comprensione, possono essere erronee: nessun enunciato o principio inferenziale è immune da revisione razionale legata all'esperienza.

Le regole costitutive del senso sono arbitrarie?

Le regole costitutive sono frutto di un accordo implicito fra parlanti, ma l'accordo avrebbe potuto essere altro. Diverse comunità possono giocare giochi linguistici diversi. Wittgenstein confronta le nostre regole per contare con quelle di una popolazione primitiva che conta fino a cinque: “è certo che la gente non vorrà mai calcolare diversamente? Che non guarderanno al nostro calcolo come noi al contare dei selvaggi i cui numeri arrivano solo fino a cinque?”.

Al carattere costitutivo delle regole grammaticali Wittgenstein aggiunge la tesi che siano arbitrarie: non solo le regole scelte possono essere diverse ma la scelta è al di là di giustificazioni o critiche razionali. Infatti “le regole grammaticali non si possono giustificare mostrando che la loro applicazione conduce a un accordo della rappresentazione con la realtà. Poiché questa giustificazione dovrebbe essa stessa descrivere la realtà”.

Il ragionamento di Wittgenstein sembrerebbe riguardare sia la giustificazione che la critica. Descrivere la realtà è possibile solo accettando regole grammaticali, che o sono proprio quelle che vogliamo giustificare o criticare, oppure sono diverse. Nel primo caso la giustificazione si autoconfuta. Nel secondo caso la descrizione è incommensurabile con le regole da valutare e sia la critica, sia la giustificazione girano a vuoto.

Si può obiettare che diversi linguaggi possono essere confrontati criticamente considerando la rispondenza a certi scopi. La replica di Wittgenstein è che al concetto “linguaggio” non corrisponde scopo determinato.

All'arbitrarietà delle regole costitutive si possono opporre numerose obiezioni. La prima riguarda la coerenza. Per Wittgenstein “nessuno ha mai avuto noie da una contraddizione”. Il timore delle contraddizioni è “superstizioso”. Ma, secondo la regola ex contradictione quodlibet, da una contraddizione si inferisce qualsiasi enunciato e un linguaggio in cui ogni enunciato sia asseribile è inutile.

La coerenza non è l'unico criterio della critica. Il frammento dei linguaggi dei primitivi i cui numeri arrivano solo fino a cinque non è incoerente, ma come strumento per organizzare l'esperienza è assai meno efficace del nostro linguaggio dell'aritmetica. Esso è dunque razionalmente preferibile per una ragione che non è la coerenza, ma la fruttuosità epistemica. Un terzo criterio per il confronto critico è la semplicità.

Che il nostro linguaggio aritmetico attui lo scopo di organizzare meglio l'esperienza di un sistema in cui si conta solo fino a cinque è chiaro solo se si comprendono le regole di entrambi. Come è possibile? I due sistemi di regole non sono incommensurabili? Per confrontarli non si dovrebbe uscire dal linguaggio? No. Possiamo capire le regole seguite nel gioco alternativo senza necessariamente seguirle. Conoscere una regola non equivale ad accettarla.

Questa è l'interpretazione di diversi studiosi, ma c'è chi la pensa diversamente.

domenica, febbraio 26, 2006

Verità e riferimento

I problemi della verità e del riferimento

La regola costitutiva (vedi post 1 e 2) della forza assertoria obbliga chi compie asserzioni a dare buone ragioni a sostegno della verità dell'enunciato asserito. Si stabilisce così un nesso tra forza assertoria e verità. Inoltre, i sensi di parole ed enunciati sono stati spiegati in termini di regole per costruire argomenti, quindi ragioni per la verità di un enunciato. V'è dunque anche un nesso fra senso e verità.

Costitutive del senso di “vero” sono una regola di argomentazione R(I) per introdurre la parola e una regola R(E) per eliminarla. La parola “vero” può essere applicata in primo luogo a enunciati S generando altri enunciati della forma “E' vero che S”. In secondo luogo può essere applicata a enunciati della forma “'S' è vero”.

La regola di introduzione R(I) ha come premessa S e la conclusione è, nella prima versione “E' vero che S” e nella seconda versione “'S' è vero”. La regola di eliminazione R(E) ha una premessa che nella prima versione è “E' vero che S” e nella seconda “'S' è vero” e la conclusione in entrambi i casi è S.

Secondo la concezione “deflazionistica” o “della ridondanza” accennata da Wittgenstein e sviluppata da altri le regole R(I) e R(E) esauriscono ciò che c'è da dire sulla nozione di verità.

Le concezioni realistiche della verità tendono a farne una nozione primitiva o a spiegarla in termini di nozioni ontologiche primitive, considerando tali realtà indipendenti dalla prassi umana del giustificare asserzioni. Per le concezioni realistiche, quindi, non v'è ragione di escludere che la verità trascenda l'esistenza di possibili prove.

Il fautore di una concezione epistemica cerca invece di chiarire la nozione di verità attraverso la prassi di giustificazione di asserzioni che, selezionando enunciati correttamente asseribili, tende a stabilire conoscenze. Fare propria la concezione epistemica è decidere di legare la nozione di verità a quella di prova.

Per dar conto del funzionamento è anche necessaria la nozione di riferimento. Il successo di alcune interazioni linguistiche fra parlanti, anche quando essi attribuiscono sensi diversi alle stesse espressioni, si spiega con l'identità del referente. Il principio di contestualità applicato al riferimento dice che il referente di un'espressione E è il contributo di E a determinare la verità (o la falsità) degli enunciati in cui può ricorrere. Se vale tale principio, il problema del riferimento è tutt'uno con il problema della verità.

Regole rilevanti per la spiegazione del significato

Uno dei contesti principali di confronto fra parlanti è quello in cui si fa un'asserzione. Chi asserisce è criticabile se, in mancanza di scuse, non risponde a obiezioni con argomenti adeguati.

Così si manifesta una regola costitutiva dell'atto linguistico dell'asserzione: in circostanze normali chi compie asserzioni è obbligato, se richiesto, a giustificarle adeguatamente. La regola contribuisce a costituire ciò che in generale è un'asserzione: quale che sia il contenuto individuale dell'enunciato E, asserire E è assumersi il dovere di dare prova di E. Con una terminologia risalente a Frege si dice che la regola è costitutiva della forza assertoria.

Vi sono altre categorie di atti linguistici e altre corrispondenti forze: vi è la categoria delle domande e la corrispondente forza interrogativa, quella dei comandi e la forza imperativa, ecc.

Un primo genere di regole da esplicitare quindi, sono le regole costitutive dei diversi tipi di forza.

L'asserzione “piove” è diversa dall'asserzione “nevica”. Seguendo Frege, chiamiamo “senso” l'ingrediente costitutivo della comprensione del particolare enunciato quindi, il “senso” di “piove” è diverso dal “senso” di “nevica”, pur essendo entrambe delle asserzioni.

Secondo Dummett un'adeguata teoria del significato deve comunque avere due parti: una teoria del senso, che permetta di specificare i sensi di tutti gli enunciati della lingua, e una teoria della forza che dia conto delle diverse categorie di atti linguistici.

Seguendo l'idea che il significato è dato da regole, la teoria della forza espliciterà regole sulla forza, la teoria sul senso espliciterà regole costitutive del senso. La teoria del senso deve spiegare in che modo il senso di un enunciato dipende dal senso delle parole componenti. La nozione centrale della teoria è quella di senso di un enunciato, poiché è solo proferendo un enunciato che si “compie una mossa del gioco linguistico” (Wittgenstein, RF, §22); il senso di una parola non è altro che il suo contributo ai sensi degli enunciati in cui ricorre. Pur non dicendo nulla che riguardi direttamente il senso, la regola sulla forza assertoria suggerisce che il senso che distingue una particolare asserzione abbia a che fare con le giustificazioni portate a supporto.

Tale suggerimento può essere sviluppato in diverse direzioni, che conducono a diverse teorie del senso.

Una possibilità è considerare costitutivi del senso di un enunciato i modi in cui un'asserzione dell'enunciato può essere giustificata. Ciò conduce alla teoria giustificazionista, che esplicita regole per giustificare o verificare enunciati.

Un'altra possibilità è considerare costitutivi del senso di un enunciato i modi in cui da quell'enunciato si possono trarre conclusioni giustificando altri enunciati. Ciò conduce alla teoria pragmatista, formulata in termini di regole per trarre conclusioni dagli enunciati.

Infine si possono unire le due idee, considerando costitutivo del senso il ruolo che l'enunciato può avere sia nell'essere giustificato che nel servire per trarre conclusioni. Questa teoria ha assunto diverse denominazioni: inferenzialismo, teoria del ruolo concettuale o del ruolo argomentativo. Nella versione qui approfondita, le regole costitutive del senso sono regole di argomentazione.

Regole di argomentazione

A partire dagli anni trenta Wittgenstein sostiene spesso che certe regole, che attribuiscono un ruolo in argomentazioni a date espressioni, costituiscono il senso di quelle espressioni. Della regola che consente di inferire un enunciato E da “non-non-E” scrive, per esempio, che “non dà una descrizione più ravvicinata della negazione”, ma “la costituisce”.

Molti hanno sviluppato questa idea e diversi sono i punti di divergenza. Accettando la concezione plastica della regola si può darne una descrizione. Non sarà, però, la descrizione di un fatto che predetermini la correttezza di usi futuri. Sarà piuttosto la descrizione di una prassi del seguire la regola, mai compiuta del tutto e in continuo divenire nell'uso pubblico del linguaggio. Tale descrizione dovrà indicare gli atti spazio-temporalmente situati che costituiscono la prassi. Tali atti, nel caso delle regole di argomentazione, saranno le singole mosse nel gioco dell'argomentare, i passi argomentativi.

Secondo Cozzo un passo argomentativo P può essere caratterizzato da sette componenti, di cui la prima e l'ultima non sono mai vuote:
P=(C,NL,PR,VAR,AR,IP,F)

La conclusione C è l'enunciato replica giustificato sulla base di ragioni che possono essere linguistiche o non linguistiche NL. Le ragioni linguistiche sono costituite da un numero finito di premesse PR ottenute mediante corrispondenti argomenti AR. Compiendo un passo argomentativo si possono vincolare variabili VAR o scaricare ipotesi IP presenti negli argomenti per le premesse. Infine un passo argomentativo può essere conclusivo o controvertibile. Nel descrivere un passo argomentativo si dovrà fargli corrispondere una certa indicazione F relativa a conclusività o controvertibilità.

Si possono fare ipotesi su affinità strutturali comuni a passi argomentativi esplicitando una struttura ∑. Una regola di argomentazione R è determinata da una struttura caratteristica ∑ tale che un passo argomentativo P è un esempio di R se, e solo se, P ha la struttura di ∑.

Il problema dell'olismo

Si può identificare il senso di un'espressione con l'insieme di tutte le regole di argomentazione in cui è essenzialmente coinvolta. Chiamiamo tale insieme “ruolo argomentativo globale”. Il problema concernente la tesi del senso come ruolo globale nasce dal carattere olistico dei passi argomentativi: l'insieme dei passi argomentativi in cui è coinvolta un'espressione dipende dalla totalità degli enunciati ritenuti veri da un parlante, si che essi contengano, sia che non contengano quell'espressione. Poiché tale totalità differisce, parlanti diversi seguono regole di argomentazione diverse.

Quasi sempre i parlanti divergono relativamente a passi argomentativi sui quali non hanno occasione di confrontarsi, e non si può indagare su tutti i passi argomentativi che un interlocutore può compiere. Quindi, se una differenza di comprensione è generata da qualsiasi divergenza su passi argomentativi, perlopiù è impossibile scoprirla. Inoltre, quand'anche fosse scoperta, come risolverla? Sarebbe necessario condividere esattamente lo stesso insieme di passi argomentativi. Prima di questo accordo totale sarebbe possibile solo incomprensione. Dal carattere olistico dei passi argomentativi siamo giunti all'olismo del significato: due parlanti comprendono un'espressione nello stesso modo solo se comprendono ogni espressione nello stesso modo.

Per evitare l'olismo del significato occorre considerare come costitutive del senso solo alcune regole di argomentazione.

Regole costitutive del senso

Chiamiamo “uso primitivo di un'espressione E per un parlante S” un uso U di E tale che S si aspetta da ogni parlante competente P:

a) che P sia d'accordo sulla correttezza di U senza esigere, né considerare possibile, alcuna giustificazione;

b) che P sia convinto che chi comprende e usa E, accetti U nel modo specificato in a).

Chiamiamo passi argomentativi immediati per S i passi argomentativi che sono usi primitivi per S. Una regola di argomentazione R è costitutiva del senso di E per S se governa passi argomentativi immediati che sono usi primitivi di E per S.

Definiamo la locuzione “la regola R tocca la parola W” come equivalente a “ogni descrizione che consenta di riconoscere gli esempi di R contiene un termine che denota W”.

Che R sia costitutiva e che tocchi W non è sufficiente affinché R sia costitutiva del senso di W. Gli usi primitivi per un parlante S instaurano una dipendenza fra parole rispetto alla comprensione per S: la parola W dipende dalla parola V per S se, e solo se, condizione necessaria per comprendere W è comprendere V. Se “pipistrello” dipende da “animale”, le regole costitutive del senso di “animale” saranno costitutive del senso di “pipistrello” anche se non toccano “pipistrello”.

La regola R è immediatamente costitutiva del senso della parola W per S se, e solo se, I) R tocca W, II) tutti i passi argomentativi che R governa sono usi primitivi di W per S.

La regola R è costitutiva del senso di W per S se, e solo se, c'è almeno una parola V tale che I) R è immediatamente costitutiva del senso di V per S; II) W dipende da V per S.

Definiamo il senso di una parola W per S come insieme delle regole costitutive del senso di W e il ruolo argomentativo immediato di un enunciato E per S come dato dalla struttura sintattica di E e dai sensi delle parole componenti.

Cosa significa "seguire una regola"

Dalle riflessioni di Wittgenstein si evince la problematicità del rapporto fra la regola e le sue applicazioni.

Per seguire una regola R, un parlante P deve entrare in uno stato particolare, espresso da asserti “P conosce la regola R” oppure “P ha afferrato la regola R”.

Secondo la concezione della determinazione completa l'essere entrati in uno degli stati suddetti determina in anticipo correttezza, scorrettezza o irrilevanza rispetto alla regola di tutti i possibili atti futuri del parlante P. Come scrive Wittgenstein “in luogo della regola potremmo rappresentarci binari [...] infinitamente lunghi” (Wittgenstein, RF, §§ 218-9).

Secondo questa tesi, il fatto di afferrare la regola contiene in sé tutte le applicazioni. Un fatto simile, di determinare in anticipo correttezza e scorrettezza di un'infinità potenziale di atti non compiuti è per Wittgenstein un “superfatto”. In tale situazione afferrare la regola non causa di applicazioni corrette per almeno due motivi:

  1. il parlante P può benissimo afferrare la regola e poi commettere errori; il comportamento di P è in fondo irrilevante, poiché l'applicazione corretta è predeterminata indipendentemente da esso

  2. la relazione tra superfatto e singole applicazioni non è una relazione contingente: fa parte dell'essenza della regola l'avere quelle applicazioni. E' come una macchina super-rigida che ha in sé tutti i possibili movimenti.

Saul Kripke interpreta le considerazioni wittgensteiniane come tese a negare che vi sia un superfatto e, quindi, a confutare la concezione della determinazione completa. Se non vuole assumerne dogmaticamente l'esistenza, il fautore di questa tesi deve spiegare in cosa consistono i superfatti. A tal fine deve proporre fatti di genere non problematico affermando che quelli sono superfatti.

Quali che siano le proposte risultano inadeguate: il paradosso di W. è che “una regola non può determinare alcun modo di agire, poiché qualsiasi modo d'agire può essere messo d'accordo con la regola” (Wittgenstein, RF, §201).

John McDowell critica l'interpretazione di Kripke. Secondo McDowell, lo scopo di W, è solo di mostrare “che v'è un modo di afferrare una regola che non è un'interpretazione” (Wittgenstein, RF, §201). Tale modo è esemplificato da casi che W. illustra dicendo: “Quando ho esaurito le giustificazioni, arrivo allo strato di roccia e la mia vanga si piega” (Wittgenstein, RF, §217). Sono casi primari, in cui agiamo “ciecamente” seguendo un'inclinazione primitiva condivisa dagli uomini. L'espressione wittgensteiniana “strato di roccia” allude proprio all'impossibilità per chi segue quella regola di darne giustificazioni. Sull'esistenza di tali casi molti concordano.

McDowell gli fa corrispondere anche l'impossibilità per il filosofo di spiegare cosa significhi seguire una regola. Il seguire una regola è a fondamento del nostro gioco linguistico. L'ostinazione a volerne cercare il fondamento è malattia filosofica.

Se non si condivide l'idea di McDowell si può trarre dalle considerazioni wittgensteiniane sul seguire una regola la conclusione che la determinazione completa sia insostenibile.

Una concezione alternativa è quella della plasticità pubblica della regola: la fonte di distinzione corretto-scorretto è data dal reciproco correggersi fra soggetti coinvolti. Da questo punto di vista il seguire una regola è possibile solo in un contesto in cui vi sia possibilità di controllo intersoggettivo.

W. dice che non si può seguire una regola “privatim” perché la nozione di correttezza esige che vi sia differenza fra ciò che è corretto e ciò che sembra corretto. La differenza non sussiste per un singolo se non in quanto un altro può correggerlo.

Insistere sul carattere pubblico dei criteri di correttezza non equivale ad affermare che, di fronte a un nuovo caso per il quale la regola sia rilevante, chi segue la regola debba consultare gli altri. Ciascuno, semplicemente “agisce così” seguendo un'inclinazione primitiva. Dalla consonanza fra le inclinazioni primitive dei singoli scaturisce un accordo nella forma di vita.

Il carattere plastico della regola è altrettanto importante: i giudizi comuni su correttezza o scorrettezza della regola sono atti primitivi che costituiscono la correttezza delle singole applicazioni e così costituiscono a poco a poco la regola stessa, le danno forma, la plasmano. Per questo la regola è plastica. Se alla plasticità pubblica della regola aggiungiamo l'idea che il significato di un'espressione E sia dato da regole per usare quell'espressione, otteniamo una concezione plastica del significato: il significato di E non è mai fissato completamente, ma continuamente plasmato dall'uso comune.

Regole costitutive di un gioco

Che cosa si intende per regola costitutiva? Un'insieme di regole è costitutivo di un gioco quando crea la possibilità stessa di giocare. Sono un esempio di regole costitutive le regole del calcio e degli scacchi.

La concezione delle regole costitutive afferma che per ogni linguaggio L:

a) l'uso di L è governato da regole

b) L sussiste attualmente, cioè vi sono parlanti che compiono atti linguistici in L, solo se tali parlanti accettano le regole in questione.


Qualcuno potrebbe pensare che, all'interno di un tale linguaggio L, nessun atto linguistico possa violare le regole, dunque nessun atto linguistico sarà dettato dalle regole costitutive: qualunque atto si compia sarà conforme ad esse.

Questo ragionamento trascura però che esistono giochi in cui è possibile annoverare delle violazioni: nel calcio il fallo di mano è una violazione per la quale è prevista una penalità. Tale regola ha senso solamente sullo sfondo delle regole costitutive del calcio. Per giocare è necessario accettare le regole, non necessariamente rispettarle.

Linguaggio e comprensione

Il compito di un indagine filosofica sul linguaggio è quello di spiegare in cosa consiste comprendere. Molti sostengono che comprendere consista nel conoscere significati e con ciò fanno coincidere l'indagine sulla comprensione con l'indagine sul significato.

Chi opera questa questa scelta di solito sostiene l'idea che i significati siano dati da regole.


Ci sono due schieramenti contrapposti:

  • spiegazione naturalistica del linguaggio nelle scienze cognitive. Uno dei maggiori esponenti è Noam Chomsky;

  • spiegazione del significato come uso. Il maggiore esponente è stato Ludwig Wittgenstein.


Secondo Noam Chomsky la conoscenza di una lingua è un “sistema e principi che generano e correlano rappresentazioni mentali” analogo ad altri sistemi biologici. L'organo del linguaggio ci consente, in seguito a stimoli che durante l'infanzia ne inneschino i meccanismi, di riconoscere enunciati ben formati, suoni intelligibili, meri rumori, ecc.

L'organo del linguaggio deve essere pensato come una macchina di Turing: un sistema computazionale che accetta determinati input (onde sonore, tracce su carta, ecc.) ed elabora un output. I nessi input-output sono, a livello neuronale, degli stati, dei collegamenti neuronali che vengono plasmati, in maggior misura, nell'infanzia. A livello astratto questi nessi sono delle regole computazionali, ovvero delle regole di un calcolo. Queste regole corrispondo a nessi causa-effetto a cui obbediscono processi neuronali.

Per riferirsi a questo sistema di regole Chomsky utilizza il termine “grammatica”, ma la grammatica può essere, e nei casi interessanti è, inaccessibile alla coscienza.

Infine, per spiegare il perché delle diverse lingue, Chomsky introduce il termine “grammatica universale”. Tale grammatica è, utilizzando una terminologia derivata dalla biologia, il genotipo di cui un individuo è dotato alla nascita. Solo in base agli stimoli ricevuti durante l'infanzia viene determinato il fenotipo ovvero la nostra lingua madre.


Anche Wittgenstein chiama “grammatica” il sistema di regole che governa l'uso del nostro linguaggio. Agli inizi degli anni trenta sostiene che sia che le regole grammaticali costituiscono il significato, sia che comprendere un linguaggio è spesso simile a comprendere un calcolo. Tuttavia W. non ha mai inteso le regole come nessi causali.

Oltre all'analogia fra linguaggio e calcolo W. usa spesso un'altra analogia, quella fra linguaggio e gioco. Quando W. parla di “gioco linguistico” si riferisce alla molteplicità di possibilità di espressione offerte dal nostro linguaggio. Come ebbe a definirlo egli stesso: “il nostro linguaggio può essere considerato come una vecchia città: un dedalo di stradine e di piazze, di case vecchie e nuove, e di case con parti aggiunte in tempi diversi; e il tutto circondato da una rete di nuovi sobborghi con strade dritte e regolari, e case uniformi.” (Wittgenstein, RF §18)

I diversi giochi linguistici formano una famiglia, ovvero essi sono imparentati in qualche modo, hanno delle somiglianze e delle differenze che si sovrappongono e si incrociano a vicenda fino a formare una fitta rete che rappresenta lo sfondo all'interno del quale abbiamo modo di riconoscere e usare un linguaggio.

In questo contesto è evidente che le regole di un calcolo diventano semplicemente un caso particolare all'interno dei molteplici casi che si possono presentare, infatti vi sono giochi che somigliano a calcoli eseguiti meccanicamente, altri che lasciano spazio all'inventiva, giochi che si evolvono nel corso del tempo, alcuni vengono abbandonati e sempre di nuovi ne sorgono.


Caratteristiche delle regole

Le regole di cui parla Chomsky sono lontane dall'usuale nozione di regola per almeno due motivi:

non sono normative e non sono convenzionali.

Comprendere espressioni linguistiche implica in primo luogo considerare alcuni usi di quelle espressioni corretti e altri scorretti. Se conosco il significato di “passeggiare” affermare di una persona seduta “x passeggia” è scorretto. Si ha dunque coscienza di una regola e in questo senso le regole sono normative.

Inoltre le regole di un gioco sono convenzionali: solo un accordo fra parlanti fa sì che la parola “passeggia” non significhi ciò che significa la parola “sta fermo”.

Dunque: perché spiegare il significato in termini di regole? Perché i significati, come le regole di un gioco, hanno carattere normativo e convenzionale.


Critiche all'uso della nozione di regola per spiegare il significato.

Quine rileva che se le regole del linguaggio fossero esplicite, per applicarle occorrerebbe già comprendere la lingua in cui sono formulate. Dunque le regole concernenti espressioni la cui comprensione è primaria, non possono essere esplicite. Per Ziff se vi fossero regole di linguaggio sarebbero stabilite nel corso dell'insegnamento. Ma la nostra lingua madre non ci viene insegnata, la impariamo.


A tali critiche si può rispondere che le regole del linguaggio sono perlopiù regole implicite, apprese vivendo insieme agli altri e solo di rado esplicitamente impartite.


Quine obietta che, ammettendo convenzioni implicite, si priva la nozione di convenzione di ogni forza esplicativa. La risposta a questa obiezione è che a volte è possibile imparare un gioco (ad esempio gli scacchi) solamente osservando e apprendendo le regole che rimangono implicite. W. sostiene che “seguire una regola [...] giocare una partita a scacchi sono abitudini (usi, istituzioni)” (Wittgenstein, RF, §199) e dunque sono “una prassi” (Wittgenstein, RF, §202).


Secondo Donald Davidson, è vero che alcuni parlanti conformano l'uso a norme condivise, ma queste non sono essenziali al linguaggio. Il gioco degli scacchi è impossibile senza regole, in questo caso le regole sono essenziali. Nel linguaggio non è così. La ragione principale è che nemmeno una lingua comune è necessaria per intendersi mediante linguaggio. Ciò che rende possibile il linguaggio è la comprensione reciproca ottenuta fra parlanti e ascoltatori attraverso l'esercizio dell'immaginazione, della generale conoscenza del mondo e la coscienza degli interessi e degli atteggiamenti umani.

Sicuramente i fattori menzionati da Davidson sono importanti per comprendere gli altri e forse anche per studiare le prossime mosse dell'avversario in una partita a scacchi. Bisogna però capire fino a che punto tali capacità possono essere esercitate senza uno sfondo di regole linguistiche comuni.

Altra obiezione di Davidson è che la norma non ha relazione chiara con la pratica. Se vi fossero convenzioni linguistiche, esse stabilirebbero una connessione fra il significato di un proferimento e determinati atti o scopi perseguiti per suo mezzo. Ma non è tratto accidentale del linguaggio che lo stesso enunciato possa essere proferito con scopi diversissimi.

Una risposta a questa obiezione è che anche nel gioco degli scacchi raramente si deduce dalle regole la prossima mossa: le regole non impongono singole mosse, ne consentono diverse.

Tuttavia nel linguaggio è frequente una discrepanza fra regole e agire effettivo dei parlanti che negli scacchi è impossibile. Negli scacchi o si muove un pezzo secondo le regole o non si sta giocando quel gioco. Se esistono delle regole costitutive del significato di un'espressione, si tratta di regole di cui sono possibili violazioni da annoverare comunque fra gli atti linguistici.