Qui ci imbattiamo in una grossa questione, che sta dietro a tutte queste considerazioni. - Infatti mi si potrebbe obiettare: "Te la fai facile! Parli di ogni sorta di giuochi linguistici, ma non hai ancora detto che cosa sia l'essenziale del giuoco linguistico, e quindi del linguaggio; che cosa sia comune a tutti questi processi, e ne faccia un linguaggio o parte di un linguaggio. Così ti esoneri proprio da quella parte della ricerca, che a suo tempo ti ha dato i maggiori grattacapi: cioè quella riguardante la forma generale della proposizione e del linguaggio".
E questo è vero. - Invece di mostrare quello che è comune a tutto ciò che chiamiamo linguaggio, io dico che questi fenomeni non hanno affatto in comune qualcosa, in base al quale impieghiamo per tutti la stessa parola, - ma che sono imparentati l'uno con l'altro in molti modi differenti. E grazie a questa parentela, o a queste parentele, li chiamiamo tutti "linguaggi". Voglio tentare di chiarire questo punto
Par. 66
Considera, ad esempio, i processi che chiamiamo "giuochi". Intendo giuochi da scacchiera, giuochi di carte, giuochi di palle, gare sportive, e via discorrendo. Che cosa è comune a tutti questi giuochi? - Non dire: "Deve esserci qualcosa di comune a tutti, altrimenti non si chiamerebbero giuochi" - ma guarda se ci sia qualcosa di comune a tutti. - Infatti, se li osservi, non vedrai certamente qualche cosa che sia comune a tutti, ma vedrai somiglianze, parentele, e anzi ne vedrai tutta una serie. Come ho detto: non pensare, osserva! [...]
Veder somiglianze emergere e sparire.
E il risultato di questo esame suona: Vediamo una rete complicata di somiglianze che si sovrappongono e si incrociano a vicenda. Somiglianze in grande e in piccolo.
Par. 67
Non posso caratterizzare queste somiglianze meglio che con l'espressione "somiglianze di famiglia"; infatti le somiglianze che sussistono tra i membri di una famiglia si sovrappongono e s'incrociano nello stesso modo [...] E dirò: i giuochi formano una famiglia [...]
Dunque vediamo di riassumere quanto esposto in questi 3 paragrafi fondamentali.
L'obiettivo principale del Tractatus è stato quello di trovare il Criterio per stabile quando un insieme di segni è una proposizione: un' insieme di segni è una proposizione se raffigura un fatto possibile. E la forma generale di una proposizione è: "Le cose stanno così e così" - ovvero il criterio della raffigurazione. Quindi il Wittgenstein del Tractatus individua il Senso di una proposizione e l'essenza del linguaggio. Ed è proprio quel Wittgenstein che potrebbe aver posto, nel par. 65, il problema di dire l'essenziale del giuoco linguistico e del linguaggio.
La risposta è evidente: abbiamo a che fare con una molteplicità di giochi linguistici, di usi possibili e la molteplicità di questi usi presenta delle somiglianze, somiglianze di famiglia che ci permettono di cogliere che appartengono tutti alla stessa famiglia, alla stessa parola magari, ma queste somiglianze non sono classificabili, non sono definite una volta per tutte, sono mutevoli, si incrociano a vicenda, hanno i contorni sfumati.
Pensiamo alla poesia.
Sempre caro mi fu quest'ermo colle
Perché queste parole sono poesia? Potremmo anche dire "Questo colle mi è sempre stato caro"
Ma non sarebbe più poesia.
Evidentemente "questo" era il modo migliore per dirlo. Ma come facciamo a dire, a spiegare "questo" modo migliore? Una volta sono stato al museo del rinascimento a Roma e c'è una copia dell'infinito di Leopardi: cancellature, correzioni, frasi riviste. Leopardi ha cercato e ricercato il modo migliore per dirlo. Il senso tra la frase di Leopardi e quella mia è lo stesso, è un po' come quando si fa la parafrasi di una poesia. Ma perché Leopardi ha scelto proprio quelle parole e in quell'ordine?
Ripeto: come lo spieghiamo che "quello" era il modo migliore per dirlo? Come lo diciamo? Non lo diciamo, non possiamo dirlo: Il "non so che", il "sentire", il gusto ci suggerisce - e ha suggerito a Leopardi - il modo migliore dirlo..
E' come se la parola fosse intrisa di tutti gli usi possibili e la proposizione insieme ad essa fosse costituita dal continuo incrociarsi e sovrapporsi di quelle somiglianze di cui parla Wittgenstein. Il segno, la parola, è solo la parte visibile di un invisibile sconfinato che intride di se il visibile, che lo carica di nuovi contenuti ogni volta.
E' come un iceberg: la punta che fuoriesce dall'acqua è la parte visibile, ma sotto, nelle profondità del mare c'è la parte grossa dell'iceberg, quella che non vediamo ma che è condizione della visibilità della punta stessa: se non ci fosse la parte sommersa la punta sparirebbe.
Ed è di questo che ci parla Wittgenstein. La parola si offre a noi con i suoi molteplici usi e significati, siamo noi, di volta in volta a darle un senso diverso: allora la parola sarà usata da un giornalista per un reportage, da un tecnico per una relazione, da un poeta per scrivere versi, da me per scrivere cazzate..
Nel Tractatus la proposizione è immagine di un fatto possibile, quello che conta è il fatto, il suo significato. Ma le parole prima di significare qualcosa sono cariche di emozioni, di pathos, per questo possiamo "sentire" che "quello" è il modo migliore per dirlo, che quella è la parola azzeccata. Nell'uso quotidiano non ci accorgiamo di tutto ciò, che la parola si presenta a noi carica di significati. Quella che usiamo tutti i giorni è già una interpretazione della parola, è un modo di considerare la parola, è quello più pratico dal punto di vista informativo: da questo punto di vista quel che conta è il referente.
Vado dal salumiere e gli chiedo due etti di salame, quello è l'importante, che l'informazione sia giunta al destinatario. Non gli recito una poesia.
Allora - e concludo - gli usi molteplici della parola hanno in comune le somiglianze di famiglia. Somiglianze che afferriamo, cogliamo. Cogliamo la molteplicità degli aspetti diversi, come se questi significati avessero tra di loro una fitta rete di somiglianze. Afferriamo di colpo, nel particolare, nel segno visibile, la molteplicità di interpretazioni, l'invisibile. Non che questo invisibile si esaurisca una volta per tutte in questa nostra comprensione; il nostro cogliere la molteplicità di usi è un renderci conto che quella parola, quel segno sensibile può dare luogo a una molteplicità di interpretazioni.
venerdì, gennaio 11, 2008
Wittgenstein, Ricerche Filosofiche, 65-66-67
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