martedì, gennaio 29, 2008

Maurice Merleau-Ponty - Il visibile e l'invisibile, appunti e riassunti 4

Interrogazione e intuizione

Quando la filosofia chiede se lo spazio, il tempo, il movimento, il mondo esistono, il campo della domanda è più ampio, ma non è ancora, come la domanda naturale, se non una semidomanda, inclusa in una fede fondamentale: c'è qualcosa, e si tratta solo di sapere se è veramente questo spazio, questo tempo, questo movimento, questo mondo che noi crediamo di vedere o di sentire.
Estendendo le domande a tutto viene mutato il senso delle stesse. Esse dovrebbero assumere come tema quel cordone ombelicale che collega sempre all'essere, quell'orizzonte inalienabile dal quale esse sono subito circondate, quella iniziazione preliminare sulla quale esse tentano vanamente di ritornare, dovrebbero non più negare e nemmeno dubitare, ma solo arretrare, tornare indietro, risalire al prima per vedere il mondo e l'essere.
Quel senso a cui si tenta di arrivare sarà ciò senza cui non ci sarebbe né mondo, né linguaggio, né alcunché: sarà l'essenza (le condizioni di possibilità dell'esperienza).
Le essenze sono in questo senso intrinseco, queste necessità di principio, a prescindere dalle realtà in cui esse si mescolano e si confondono (senza che le loro implicazioni cessino di farvisi valere), unico essere legittimo o autentico, che ha pretesa e diritto all'essere e che è affermativo di se stesso, giacché esso è il sistema di tutto ciò che è possibile allo sguardo di un puro spettatore, la proiezione o il disegno di ciò che è, a tutti i livelli, qualcosa: qualcosa in generale, qualcosa di materiale, di spirituale o di vivente.

Il problema dell'essenza è il problema ultimo? Con l'essenza e lo spettatore puro che la vede, siamo veramente all'origine?
L'inventario delle necessità d'essenza comporta sempre una presupposizione (la stessa che ritorna così spesso in Kant): se questo mondo deve esistere per noi, o se deve esserci un mondo, o se deve esserci qualcosa, allora è necessario che essi osservino la tale o tal altra legge di struttura. Ma dove attingiamo l'ipotesi? Da che cosa sappiamo che c'è qualcosa, che c'è un mondo?

E' quindi all'esperienza che appartiene il potere ontologico ultimo, e le essenze, le necessità d'essenza, la possibilità interna o logica, per solide e incontestabili che siano sotto lo sguardo dello spirito, posseggono la loro forza e la loro eloquenza unicamente perché tutti i miei pensieri e i pensieri degli altri sono presi nel tessuto di un solo essere. Il puro spettatore in me, che innalza ogni cosa all'essenza, che produce le sue idee, non è sicuro di toccare con esse l'essere se non perché emerge in un'esperienza attuale, che è il suolo dell'essere predicativo. L'essenza è una in-variante; esattamente: ciò la cui trasformazione o assenza altererebbe o distruggerebbe la cosa.

Per ridurre veramente un'esperienza alla sua essenza, dovremmo prendere nei suoi confronti una distanza che la mettesse per intero sotto il nostro sguardo con tutti i sottintesi di sensorealità o di pensiero che agiscono in essa, farla passare e farci passare completamente alla trasparenza dell'immaginario, pensarla senza il sostegno di nessun ruolo, in breve, arretrare in fondo al nulla.
Ma dal momento che la sorvolerei, si tratterebbe ancora di un'esperienza? Viceversa, se si riesaminasse l'antitesi del fatto e dell'essenza, si potrebbe forse ridefinirla in un modo che ce ne dia accesso, poiché essa non sarebbe al di là, ma nel cuore di questo avvolgimento dell'esperienza sull'esperienza che prima costituiva una difficoltà.

Il presente visibile non è nel tempo e nello spazio, né, naturalmente, fuori di essi: non c'è nulla prima di esso, dopo di esso, attorno ad esso, che possa rivaleggiare con la sua visibilità. E tuttavia, non è solo, non è tutto.
Esattamente: esso intercetta la mia veduta, vale a dire che il tempo e lo spazio si estendono al di là e al tempo stesso che sono dietro di esso, in profondità, di nascosto. Il visibile può così riempirmi e occuparmi solo perché, io che lo vedo, non lo vedo dal fondo del nulla, ma dal cuore del visibile stesso: io, il vedente, sono anche visibile; ciò che costituisce il peso, lo spessore, la carne di ogni colore, di ogni suono, di ogni texture tattile, del presente e del mondo, è il fatto che colui che li coglie si sente emergere da essi grazie a una specie di avvolgimento o di raddoppiamento, fondamentalmente omogeneo ad essi, il fatto che egli è il sensibile stesso veniente a sé, e che, reciprocamente, il sensibile è ai suoi occhi come il duplicato o estensione della sua carne.

Se l'essere non è più davanti a me, ma mi circonda, e in un certo senso, mi attraversa, se la mia visione dell'essere non si effettua da un altro luogo, ma dal cuore dell'essere, allora i cosiddetti fatti, gli individui spazio-temporali sono da subito innestati sugli assi, sui cardini, sulle dimensioni, sulle generalità del mio corpo, e quindi le idee sono già incrostate nelle sue giunture.
Viviamo e conosciamo non a mezza strada fra fatti opachi e idee limpide, ma al punto di incontro e di incrocio in cui delle famiglie di fatti inscrivono la loro generalità, la loro parentela, si raggruppano attorno alle dimensioni e al luogo della nostra propria esistenza.
Non ci sono più essenze al di sopra di noi, come oggetti positivi, offerti a un occhio spirituale, ma c'è un'essenza al di sotto di noi, nervatura comune del significante e del significato. Come il mondo è dietro il mio corpo, così l'essenza operante è dietro la parola operante, quella che, più che possedere il significato, è da essa posseduta, che non ne parla, ma lo parla, o parla in base ad esso, o lo lascia parlare e parlarsi in me, attraverso il mio presente.
Come la nervatura sostiene la foglia dall'interno, dal fondo della sua carne, così le idee sono il texture dell'esperienza: il suo stile, dapprima muto, poi proferito. Al pari di ogni stile, esse si elaborano nello spessore dell'essere e, non solo di fatto, ma di diritto, non potrebbero esserne distaccate per venir dispiegate sotto lo sguardo.
Se la coincidenza è perduta, non è un caso, se l'essere è nascosto, ciò è proprio una peculiarità dell'essere e nessuno svelamento ce lo farà comprendere. Se la coincidenza è sempre e solo parziale, non si deve definire la verità con la coincidenza totale o effettiva. E se abbiamo l'idea della cosa stessa e del passato stesso, è necessario che essa abbia qualche rispondenza nel fatto. Occorre quindi che lo scarto, senza il quale l'esperienza della cosa o del passato si ridurrebbe a zero, sia anche apertura alla cosa stessa o al passato stesso ed entri nella loro definizione. Allora, ciò che è dato non è la cosa nuda, il passato stesso così come fu a suo tempo, ma la cosa pronta ad essere vista, pregna, sia per principio che di fatto, di tutte le visioni che è possibile averne, il passato così come fu un giorno, più una inspiegabile alterazione, una strana distanza, collegato, sia per principio che di fatto, a una rammemorazione che supera questa distanza, ma non l'annulla.

Il linguaggio è una vita, è la nostra vita e la loro. Non perché il linguaggio se ne impadronisca e la riservi: che cosa avrebbe infatti da dire se ci fossero solo cose dette? Il linguaggio non è una maschera sull'essere ma, a patto che lo si colga con tutte le sue radici e tutte le sue fronde, il più valido testimonio dell'essere.
Che ogni essere si presenti in una distanza che non è un impedimento per il sapere, che viceversa ne è la garanzia, ecco ciò che non si esamina. Che per l'appunto la presenza del mondo sia presenza della sua carne alla mia carne, che io ne sia, senza essere lui, ecco ciò che, non appena detto, viene dimenticato. Si dovrebbe ritornare a questa idea della prossimità per distanza, dell'intuizione come auscultazione o palpazione in spessore di una veduta che è una veduta di sé, torsione di sé su sé, e che mette in questione la coincidenza.

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