La fede percettiva e la riflessione
La fede percettiva del mondo è la nostra esperienza, più vecchia di qualsiasi opinione, di abitare il mondo mediante il nostro corpo, la verità con tutti noi stessi, senza che ci sia da scegliere e nemmeno da distinguere tra la certezza di vedere e quella di vedere il vero, poiché essi sono per principio una medesima cosa, fede dunque, e non sapere, perché il mondo non è qui separato dalla nostra presa su di esso, perché, più che affermato, esso è assunto come ovvio e, più che svelato, è non dissimulato, non confutato.
Noi tutti cogliamo il mondo, e lo stesso mondo, ed esso appartiene a ciascuno di noi, senza divisioni né perdite, poiché esso è ciò che pensiamo di percepire, l'oggetto indiviso di tutti i nostri pensieri; pur non essendo l'unità numerica, la sua unità non è nemmeno l'unità specifica: è quella unità ideale o di significazione che fa si che il triangolo del geometra sia il medesimo a Tokyo e a Parigi.
Quella unità è sufficiente e vanifica ogni problema, perché le divisioni che possono esserle contrapposte, la pluralità dei campi percettivi e delle vite, non contano nulla davanti ad essa, non appartengono all'universo dell'idealità e del senso e perché nel cuore di tutti i pensieri situati abbiamo riconosciuto, attraverso la riflessione, il puro apparire del pensiero a se stesso, l'universo dell'adequazione interna, in cui tutto ciò che abbiamo di vero si integra senza difficoltà. Unità colta nel nostro comune "pensare di percepire" - molteplicità che si offre alle nostre osservazioni.
Tutta l'analisi riflessiva non è falsa, bensì ingenua, finché nasconde a se stessa il suo proprio movente e il fatto che, per costituire il mondo, è necessario avere nozione del mondo in quanto precostituito, ragion per cui il procedimento è per principio in ritardo su se stesso.
Ciò che è dato non è un mondo massiccio e opaco, o un universo di pensiero adeguato, bensì una riflessione che si volge sullo spessore del mondo per rischiararlo, ma che, a cose fatte, non gli rinvia se non la propria luce.
Se quindi la riflessione non deve presumere di ciò che trova e condannarsi a mettere nelle cose ciò che poi fingerà di trovarvi, è necessario che essa non sospenda la fede nel mondo se non per vederlo e per leggere nel mondo il cammino che esso ha seguito divenendo mondo per noi, che cerchi nel mondo stesso il segreto del nostro legame percettivo con esso, che gli faccia dire ciò che nel suo silenzio esso vuol dire.
Ogni percezione è mutevole e solamente probabile, se si vuole non è che un'opinione, ma ciò che non è, ciò che ogni percezione, anche falsa verifica, è l'appartenenza di tutte le esperienze allo stesso mondo, il loro eguale potere di manifestarlo, essendo possibilità dello stesso mondo.
Ogni percezione implica la possibilità della sua sostituzione da parte di un'altra, e quindi, di una specie di sconfessione delle cose, ma ciò significa anche che ogni percezione è il termine di un approccio, di una serie di illusioni che non erano semplici pensieri, nel senso restrittivo dell'essere per sé e del solamente pensato, ma possibilità che avrebbero potuto essere (i morti e i non nati di cui parlava Paul Klee), irradiazioni di quel mondo unico che c'è.
La filosofia riflessiva sostituisce il mondo con l'essere-pensato. Essa parte dal principio che, perché una percezione sia mia, è necessario che fin d'ora essa sia una delle mie rappresentazioni, che, in altri termini, come pensiero io sia colui che effettua il collegamento degli aspetti sotto i quali l'oggetto si presenta e la loro sintesi in un oggetto.
All'analisi riflessiva è necessario muovere da una situazione di fatto. Se essa non si desse immediatamente l'idea vera, l'adequazione interna del mio pensiero a ciò che io penso, o anche il pensiero in atto del mondo, le occorrerebbe far dipendere ogni "io penso" da un "io penso di pensare", quest'ultimo da un "io penso di pensare che penso" e così via. La ricerca delle condizioni di possibilità è, per principio, posteriore a un'esperienza attuale.
Proprio perché è ri-flessione, ri-torno, ri-conquista, essa non può illudersi di coincidere semplicemente con un principio costitutivo già all'opera nello spettacolo del mondo. Se, attraverso la riflessione, io fingo di trovare nello spirito universale la premessa che da sempre sosteneva la mia esperienza, ciò è possibile solo dimenticando quel non-sapere iniziale che non è un niente, che non è nemmeno la verità riflessiva, e di cui si deve a sua volta rendere conto.
venerdì, gennaio 25, 2008
Maurice Merleau-Ponty - Il visibile e l'invisibile, appunti e riassunti 3
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7 commenti :
Sapresti commentarmi forse una delle più belle proposizioni che MP scrive in polemica con la filosofia riflessiva? La proposizione è questa
“filosofia che dà conto dell’essere e della verità, ma che non tiene conto del mondo”
Ciao, e grazie!
Interessante la tua richiesta, mi prendo un momento per formulare una risposta.
ciao
Quando MP polemizza con la filosofia riflessiva dobbiamo tenere ben presente che la sua critica principale è nei confronti della rappresentazione dualistica del mondo. Rappresentazione risalente alla divisione cartesiana tra res extensa e res cogitans che culmina proprio nella filosofia riflessiva o del "soggetto puro" (cogito ergo sum). Secondo questa posizione soggetto e oggetto sono divisi, contrapposti, l'uno come il senziente, l'essere che percepisce, e l'altro come il sentito, il percepito.
MP sin dai suoi primi scritti cerca di invertire completamente questo rapporto di contrapposizione trasformandolo in rapporto di reciproca implicazione.
La metafora della "carne" è l'elemento caratterizzante questo rapporto: l'essere dell'io e quello del mondo partecipano della stessa carne, il corpo dell'uomo e quello del mondo non sono due realtà separate, ma intrecciate e avvolte l'una sull'altra, formando un chiasma, un profondo rapporto di reciproca implicazione e sopravanzamento.
Il corpo diventa così una sorta di interfaccia per relazionarsi con il mondo, anch'esso carne, e proprio e solo per questo tangibile e visibile. E noi siamo al tempo stesso vedenti e veduti, visibili tra i visibili.
Nel fenomeno delle mani che toccano infatti, il corpo si sdoppia, in quanto la mano che è toccata ha anch'essa la possibilità di sentire, e insieme si avvolge chiasmaticamente nella sospensione attivo/passivo (toccata e toccante): in questa sospensione attivo/passivo resta uno scarto, una assenza, l'ambiguità essenziale della nostra carnalità, quella incompiutezza del rapporto uomo-mondo.
Ed è questa fondamentale incompiutezza che MP sottolinea quando attacca la filosofia riflessiva che pretende di ricondurre l'essere al pensiero, un pensiero di "sorvolo" che corrisponde a tutte quelle attività conoscitive che si accontentano di cogliere la superficie della realtà, attraverso astrazioni concettuali e categorie logiche, perdendo così il senso del rapporto uomo-mondo.
Nell'assoluto (o nella verità, per usare lo stesso termine della frase da te citata) risiede la morte della filosofia che invece dovrebbe continuare ad interrogarsi su questo rapporto sempre incompiuto, sempre in divenire tra io e mondo. Lo scarto tra essere e pensare si traduce così in un linguaggio simbolico e allusivo, il solo percorribile, dove l'incompiutezza della parola è il segno di questa irriducibilità, di questo scarto che nessun pensiero di sorvolo o filosofia riflessiva potrà mai annullare.
Come si legge nel testo "Il visibile e l'invisibile": "Tutta l'analisi riflessiva non è falsa, bensì ingenua, finché nasconde a se stessa il suo proprio movente e il fatto che, per costituire il mondo, è necessario avere nozione del mondo precostituito, ragion per cui il procedimento è in ritardo su se stesso".
Concordi?
Mi piacerebbe parlarne via mail o anche in chat. Se puoi scrivermi il tuo indirizzo mail...Che ne dici?
Volentieri, scrivimi pure: inzagol@gmail.com
Good words.
Many thanks :-)
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